Ti
ho aspettato fino a dimenticare cosa. Mi è rimasta un'attesa nei
risvegli, saltando giù dal letto incontro al giorno. Apro la porta
non per uscire, ma per farlo entrare.
Non
vorrei scrivere di storie vere o di amori impossibili. Vorrei
scrivere di panchine piantate nella terra, circondate dal verde
profumato dell'erba. C'è anche qualche piccolo fiore, che spunta con
un ciuffo di colore, nell'asfalto.
Sono
cose che amo scrivere, queste. E tu ami leggerle. Le ami perché c'è
dell'amore dentro, c'è una fievole luce, quel calore di mano che
sfiora un'altra mano. Mi è rimasta l'attesa perché l'attesa si
riempie sempre un pochino, si gonfia come un palloncino di speranza.
E se potessi saltare giù dal letto senza annichilirmi per il freddo
dell'inverno, spalancherei non solo la porta, ma tutte le finestre di
casa mia per fare entrare il mio amore, il mio amico, la mia piccola
primavera.
Parliamo
di se e di ma, dimentichiamo che il tempo se ne frega dei piani della
gente, e ti mozza le gambe, alcune volte ti fa finire dritto in
ospedale nel pieno della notte.
Ed
è allora che lo fai entrare davvero, l'amore di cui hai bisogno.
L'affetto. La cura. Sarebbe bello che non dovessero succedere fatti
particolarmente tragici per farci comprendere quanto qualcuno conti
in un modo che ti spezza il fiato. Ma siamo umani. Sbagliamo.
Dimentichiamo di sognare. Facciamo finta di non sperare. E siamo
spesso troppo orgogliosi per metterci in ginocchio.
E
allora si fa quel numero, si scorre la rubrica. E poi ti innamori di
quel gesto che stai facendo, perché stai cedendo e stai chiedendo
aiuto e non ci sei abituato. E ti innamori di nuovo di una frase. Una
cosa che molti non fanno più: dare calore incondizionato.
Io
ci sono. Rimango sveglio. Non sei solo.
E
allora è come se dentro, insieme alla paura del momento, nella
confusione dell'angoscia e della nebbia nel cervello, qualcosa fa di
nuovo click e quella ruota che avevi bloccato come si fa con le ruote
di una sedia a rotelle, ricomincia a girare.
E
gira. E tu la senti. E non ne vuoi fare più a meno. E allora non
importa più in che modo quella persona c'è, non conta se ha anche
una vita propria, se sta vivendo qualche storia, se sta passando
periodi di angoscia silenziosa. Non conta non perché non sia
importante, ma perché hai finalmente incominciato ad accogliere
quella persona così, come viene, quando vuole, per amore o per
egoismo, per amicizia o per pietà. La accogli. E non gli fai più le
domande che avresti fatto prima. Ti occupi solo di stare in un angolo
della sua vita o qualsiasi altro spazio che ha intenzione di
concederti e stai. Stai lì. E glielo dici che stai lì. Che non te
ne andresti mai più. Perché in un modo o nell'altro, vuoi che
continui. Che continui sempre. Anche con intervalli di silenzi,
aggiustamenti di ingranaggi reciproci.
Deve
continuare. Solo questo conta.
Perché
gli inverni sembrano più lunghi delle estati o delle primavere, ma
quella panchina sta lì bella piantata alla sua terra. E sta.
Attende. Vive dei fiori vicino, delle nuvole del cielo, dei baci dei
ragazzi innamorati, dei bastoni che gli anziani usano per camminare.
Le
panchine vivono a modo loro. Forse è questo che tutti siamo,
panchine che respirano le stagioni e gli odori del mondo e della
gente.
Io
ci sono. Ha un odore buono, di biancheria pulita, di persona pulita.
Di qualcosa che merita solo di essere asciugata al sole, all'aria
frizzante della sera. Ed essere indossata ogni giorno. Magari prima
di andare a dormire. O appena svegli. Prima di ricominciare la
giornata.