giovedì 1 novembre 2012

Accade, quando ci tieni.

Ti ho aspettato fino a dimenticare cosa. Mi è rimasta un'attesa nei risvegli, saltando giù dal letto incontro al giorno. Apro la porta non per uscire, ma per farlo entrare.
Non vorrei scrivere di storie vere o di amori impossibili. Vorrei scrivere di panchine piantate nella terra, circondate dal verde profumato dell'erba. C'è anche qualche piccolo fiore, che spunta con un ciuffo di colore, nell'asfalto.
Sono cose che amo scrivere, queste. E tu ami leggerle. Le ami perché c'è dell'amore dentro, c'è una fievole luce, quel calore di mano che sfiora un'altra mano. Mi è rimasta l'attesa perché l'attesa si riempie sempre un pochino, si gonfia come un palloncino di speranza. E se potessi saltare giù dal letto senza annichilirmi per il freddo dell'inverno, spalancherei non solo la porta, ma tutte le finestre di casa mia per fare entrare il mio amore, il mio amico, la mia piccola primavera.
Parliamo di se e di ma, dimentichiamo che il tempo se ne frega dei piani della gente, e ti mozza le gambe, alcune volte ti fa finire dritto in ospedale nel pieno della notte.
Ed è allora che lo fai entrare davvero, l'amore di cui hai bisogno. L'affetto. La cura. Sarebbe bello che non dovessero succedere fatti particolarmente tragici per farci comprendere quanto qualcuno conti in un modo che ti spezza il fiato. Ma siamo umani. Sbagliamo. Dimentichiamo di sognare. Facciamo finta di non sperare. E siamo spesso troppo orgogliosi per metterci in ginocchio.
E allora si fa quel numero, si scorre la rubrica. E poi ti innamori di quel gesto che stai facendo, perché stai cedendo e stai chiedendo aiuto e non ci sei abituato. E ti innamori di nuovo di una frase. Una cosa che molti non fanno più: dare calore incondizionato.
Io ci sono. Rimango sveglio. Non sei solo.
E allora è come se dentro, insieme alla paura del momento, nella confusione dell'angoscia e della nebbia nel cervello, qualcosa fa di nuovo click e quella ruota che avevi bloccato come si fa con le ruote di una sedia a rotelle, ricomincia a girare.
E gira. E tu la senti. E non ne vuoi fare più a meno. E allora non importa più in che modo quella persona c'è, non conta se ha anche una vita propria, se sta vivendo qualche storia, se sta passando periodi di angoscia silenziosa. Non conta non perché non sia importante, ma perché hai finalmente incominciato ad accogliere quella persona così, come viene, quando vuole, per amore o per egoismo, per amicizia o per pietà. La accogli. E non gli fai più le domande che avresti fatto prima. Ti occupi solo di stare in un angolo della sua vita o qualsiasi altro spazio che ha intenzione di concederti e stai. Stai lì. E glielo dici che stai lì. Che non te ne andresti mai più. Perché in un modo o nell'altro, vuoi che continui. Che continui sempre. Anche con intervalli di silenzi, aggiustamenti di ingranaggi reciproci.
Deve continuare. Solo questo conta.
Perché gli inverni sembrano più lunghi delle estati o delle primavere, ma quella panchina sta lì bella piantata alla sua terra. E sta. Attende. Vive dei fiori vicino, delle nuvole del cielo, dei baci dei ragazzi innamorati, dei bastoni che gli anziani usano per camminare.
Le panchine vivono a modo loro. Forse è questo che tutti siamo, panchine che respirano le stagioni e gli odori del mondo e della gente.
Io ci sono. Ha un odore buono, di biancheria pulita, di persona pulita. Di qualcosa che merita solo di essere asciugata al sole, all'aria frizzante della sera. Ed essere indossata ogni giorno. Magari prima di andare a dormire. O appena svegli. Prima di ricominciare la giornata.



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