giovedì 31 gennaio 2013

Tra ciò che può e ciò che c’è


Che uno si prende quello che può e non quello che c’è, ché se non c’è non potrebbe prenderselo e sai che dispiacere? Allora come se lo prende, dici tu. Niente, che ti posso dire? Ognuno ha un modo suo. C’è chi si prende un mucchietto di parole e fa una montagnetta e in cima ci mette un pensiero. C’è chi prende un pennello e adora sentire prima le setole sui polpastrelli, poi li immerge nell’acqua e poi è il turno del colore. C’è chi accende la radio e pulisce per terra con lo swiffer, che piace vedere la polvere che pare del cotone sporco, e poi prende il panno lo chiude con cura e lo mette nel sacchetto di plastica. Poi ci riflette e pensa: ma è riciclabile lo swiffer? E se sì, dove lo piazzo? Poi c’è chi si mette su youtube, si crea un canale preferenziale per le proprie emozioni e se le conserva per crearsi una strada da ripercorrere per ricordare. Poi c’è chi si avvolge le dita con il nastro, si infila le scarpette e si mette a scrivere poesie con il corpo.

Poi c’è chi crede di non saper fare nulla e si prende quello che può con uno sguardo verso il cielo, una mano tesa nell’aria, una guancia immaginata accanto alla propria.

C’è chi si prende l’infinito in un abbraccio.

C’è chi si apre al silenzio racchiuso negli spazi tra le parole, perché non si affida alla carta, ma solo alla fede dei propri sentimenti.

C’è chi può. C’è chi c’è. C’è chi, pur non potendo, c’è. C’è chi, pur essendoci, non può.

C’è che come la rivolti, che sia una sbavatura di colore, una virgola, una nota, lì ci siamo noi.

Grumo.


-E vidi, vidi che era morte intensa, era di quella vita che si accumula nella bocca dello stomaco. Morsa e macigno da portare giù lo spirito, espellerlo dal corpo e le membra, fantoccio in balia del male. E non era male d’immaginario collettivo o tradizione religiosa. Era il mare dentro. Marea vischiosa di cemento appena gettato.

Vaso di Pandora che non lascia dentro la speranza, ma apre un varco in fondo al vaso, un buco e niente fuoriesce, diviene gorgo, bocca che vomita buio. -

Noi, spettatori avvinti da una coperta gelida, lasciata fuori nelle notti sotto zero d’amore. Lasciati inebetiti di fronte a verità che in fondo son ben visibili, ma nascoste bene da noi stessi. Noi che non possiamo non porci domande scomode. Oppure scegliamo di seppellire tutto, e le nostre certezze però diventano illusioni che segretamente conosciamo, che coscientemente rifiutiamo. Ma è tutto inutile, ormai sappiamo. Sappiamo. Non si torna indietro.

Si può cadere a fondo, senza più avere la forza di rialzarsi, come un finale aperto che perde la sua natura. Può un finale non essere fine? Sì, può. E non dobbiamo sconvolgerci neanche. Se ci pensiamo, Haneke non fa altro che aprire porte che la vita lascia spalancate o socchiuse. Ma che stanno, stanno lì, con i loro misteri. Questa è la vita, un mistero che si accetta, si combatte, delira o si compatisce. E una vita così, scarna, pulita, essenziale, ma così disperata, può essere davvero accettata a testa bassa? Possiamo noi che vediamo, assistiamo all’amore e al dolore, alla privazione di dignità, alla malattia e a molto altro, lasciarci travolgere solo dal buio? Solo dall’incredulità? Lo shock è fortissimo, lo stomaco che si contorce e il cuore che diventa davvero pesante ingigantiscono pensieri che possono essere pericolosi. Haneke da spazio al nichilismo del corpo, dello spirito, dell’amore, dell’insanità mentale. Haneke apre abissi interiori. E ci lascia lì, sul ciglio di un brivido, di un’inquietudine profonda. Spetta a noi saltare nel buio, voltarci dall’altra parte, scappare immediatamente. Osservare le interiora della paura.

Io credo che Haneke, sebbene racconti della morte, non fa altro che farci conoscere la Vita. Che ci piaccia o no, la Vita, quella che non si nasconde più, che viene a galla, e dove possono anche annegare la speranza e l’amore.

La scelta dello spettatore è la fine del film. Il finale della pellicola lascia le porte aperte, la scelta dello spettatore di imboccare una delle porte, è la fine. E forse, l’inizio di una nuova coscienza. Di una nuova umanità, forse meno innocente e disillusa, ma più consapevole che se sceglie di amare, lo sceglie dolorosamente oltre che preso dalla tenerezza e le morbidezze che esso offre.

Nota: le suggestioni di questo post sono frutto del fil “Amour” di Haneke.

mercoledì 30 gennaio 2013

Vertigine

 
Si può tremare anche da seduti. Colti dalla paura, dalla frenesia o dall'amore, si può cadere ininterrottamente dentro una vertigine che toglie il fiato. E allora allarghi le dita, cerchi un appiglio, ma sei seduto e ci sei solo tu e la tua sedia, nient'altro. In una stanza grigia, quel bel bianco sporcato dalle bugie o dalle illusioni, le preoccupazioni e chissà cos'altro. E ti piglia quella vertigine pesante che non ti eleva, ti sospende. E rimani sospeso in quell'emozione come se non esistesse nient'altro. Come se non si cercasse neanche una via d'uscita. Si chiudono gli occhi e la nausea ti prende lo stomaco. Tutto trema. Trema un grido che all'interno si agita, è un terremoto, e sale sale fino alla bocca muta.
E apri gli occhi come se potessi distruggere tutte le pareti con lo sguardo. Uno sguardo rosso, blu, verde, una vertigine diversa perché non ti porta verso te stesso, ma si diffonde nello spazio come un'increspatura d'acqua su un lago.
E diventi quell'urlo, quel colore, quell'onda che abbatte i muri, abbatte la paura, gli sbagli, i castelli di carta, le difficoltà della vita. E ti alzi dalla sedia, quel peso gravitazionale che ti schiacciava non cè più o se c'è, comunque la vertigine colorata è più intensa. Intorno a te: mare, spiaggia, deserto, cascata. Tutto il mondo in uno sguardo circolare, la vertigine finale. Quella che ti riporta nella vita.

domenica 27 gennaio 2013

linguaggio per sordomuti

Gesti
gesti che richiami quando c'è troppo da vedere
gesti
gesti che riscopri quando pensavi che non ci fosse più niente da vedere
allora chiudi gli occhi e...
si copre le orecchie quando non vuole sentire più se stesso
si porta una ciocca dietro l'orecchio
alza il sopracciglio quando sa di avere ragione
passa un indice sulla tempia
passa il palmo sul suo cuore
inarca la testa sempre un po' più a destra
si schiocca le dita
accenna un sorriso se vede un bambino per strada
fa una smorfia se sente un odore di fumo
azioni piccolissime e di una precisione maniacale
gesti
cose insignificanti di cui la gente s' innamora proprio
non è che una persona è amabile, affascinante, buona, stronza, timida, taciturna, chiaccherona, intelligente, saggia, gentile, brusca
non è che una persona è affidabile, comprensiva, complicata, espansiva e così via
sono i gesti
sono quelli che ti bucano qualcosa dentro, scavano un pochino e si sedimentano
sono i gesti che richiami quando non ami più, per amare ancora, ravvivare un fuoco
o quando ami troppo, e cerchi di stemperare la tensione emotiva, fermi un po' l'onda con i gesti
sono quelli
i gesti
la gente di questo s'innamora.
Dei gesti
se sia la cosa più superficiale al mondo, o la verità del secolo, nessuno lo sa
manco chi si innamora.



lunedì 21 gennaio 2013

I problemi della punteggiatura

 
 
Salti tu salto io salta pure un po’ mio zio
 E mo’ che c’azzecca tuo zio?
Lascia stare, serve per la rima. Dobbiamo trovare il ritmo.
Perché?
Per ballare!
Ah, non ballo io.
E invece sì. Sfuggi sempre dalle sue dita, questo è ballare!
No, al massimo, è schivare!
Mettila come vuoi, lei pigia e tu shifti, non ti fai mai trovare al posto giusto
Mi piace spostarmi. Sono vagabondo dentro io.
Tu sei dispettoso, ecco cosa sei, punto!
Punto, sì, è il mio nome. Non mi nominare invano.
SUPERBO.
Senti tu, che mi sgridi sempre.
Io, cosa?
Non credere di essere migliore di me, con quella tua virgoletta in basso…
IO SONO UNA VIRGOLA, non mi atteggio mica!
Come ti pare…
SMETTILA SUBITO. Sei tu quello che si monta, monta un’asticella così, tanto per esclamare qualcosa. Oppure si va venire mille dubbi ed ecco che non la smetti di porti mille domande.
Sono complesso io, le personalità grandi sono così.
SEI UN COMPLESSO DI COMPLESSI ecco cosa sei! Guarda me invece.
Ti sto guardando, occhio che pulisci il pavimento così…
OCCHIO CHE TI CANCELLO, se continui a fare lo spiritoso.
Non puoi. Può solo lei.
Ehi, smetti, non esiste il punto innamorato eh.
Non sono innamorato.
Ma se sfuggi sempre dalle sue dita. Lo sei eccome.
Appunto. Se scappo è perché non lo sono.
Lo sei.
No.
Come ti pare.
Ecco, sì. A modo mio.
Ultimamente hai visto che non ti usa spesso?
Cosa intendi?
Beh, le piacciono le frasi lunghe, quelle con tante virgole. Pensieri unici racchiusi in una sola frase.
Alla fine mette il punto però.
S’è stancata di te, te lo dico io.
Non è…
Vero? Mi spiace per te, ma le virgole sono meglio per lei. Più funzionali, meno definitive.
Ma io…
Oh su dai non fare così ora, magari lei torna. Se la smetti di essere sempre “o tutto bianco o tutto nero”
Forse. Sì. Forse. Dovrei provare.
Ecco, bravo, prova.
HO UN’IDEA GENIALE PER FARLA TORNARE DA ME.
Oh, qual è?
Sospensione, ecco. Sono un genio!
Sospensione? E che segno è?
… così non finisce mai, no?
 


mercoledì 16 gennaio 2013

pensiero che se ne va



Tutto si è accorciato, srotolo pensieri ma quelli tornano indietro, no no basta parole, mi sussurrano, non servono così tante parole, ma io voglio scrivere qualcosa, ed è questo l’errore, non qualcosa non se annacqua i tuoi pensieri, non se prolunga l’agonia di parole che non si trovano, che fuggono. Non le inseguire quelle parole non sono tue forse, non sono per te, non ti appartengono. Non sono il tuo faro e tu non sei il loro. Lascia che vadano. Che facciano pure la loro strada, quelle per te sono altre e ti verranno incontro. Per essere un pensiero fuggevole ne hai di cose da dire, scherzo io. Abbi pazienza, fra poco fuggirò anche io, però ti sono venuto a trovare no? Dovevo rimanere solo per questo tempo, guardami già mi accorcio. Mi dispiace di lasciarti ma non essere triste o confusa, io tornerò in un modo o nell’altro, magari per più tempo, ma tu non mi forzare e non annegare nel frattempo. Lasciami andare, è questo il segreto, e io tornerò.
E io rimango così, un po' al buio, a guardare quel pensiero che se ne va. Come la luce che fugge dagli occhi.

dopo mezzanotte

 
Sono milioni le stelle sulla pelle del cielo dopo mezzanotte
Sognatori come tanti. Così altrove rispetto a tutto. Ma mai rispetto al cielo.

 
Prendiamo i sogni come polvere solubile, la sciogliamo col calore del desiderio.

 
E bevime e bevote.

 
Tutto quanto, tutto in un sorso. Brucia la lingua. Bruciami dentro, invadi, riempi, scaldi. Sono così questi sogni, così reali, che tengono al riparo.

 
Come le ingabbi quelle stelle? Come le spegni?

 
Non possono, non devono, ogni cosa al proprio posto, ordine definito, un tempo anche per le stelle di accendersi. E un tempo per spegnersi. Interruttori armoniosi del cielo, meccanismi che vorticano fuori dalle nostre mani, ma dentro al nostro petto per la mente che non ce la fa a contenerle. Allora si spargono dappertutto nel corpo, irradiano, scie d’infinito dai mille colori che accendono il mondo per intero.
 

martedì 15 gennaio 2013

una lezione da ricordare

Nella spontaneità dell’universo che ci cade addosso e ci frantuma, lì giocano le stelle, come bambine dispettose che pure loro cadono, forse si fanno male, insieme ai desideri. Ma noi di più, legati tutti alla terra che ci parla ma che non sappiamo più ascoltare. Un monologo siamo, noi contro il cielo. Gridiamo all’universo, che delle sue leggi non ci insegna. Una lezione impartisce sempre, e noi la subiamo, scolaretti che non fanno i compiti a casa. Innocenti senza libri che ci insegnino a vivere. Eppure lo beffiamo, o almeno così ci pare e ci basta per dare un senso a noi stessi, quando li scriviamo noi i gesti in cui realizziamo l’impossibile: ci rialziamo. Quando ci rialziamo, scriviamo la storia del mondo. E la terra ci sostiene, paziente alla nostra sordità.

domenica 6 gennaio 2013

Le dinamo fanno magie a tempo indeterminato.


E allora faccio così, tengo i tuoi occhi nel giubbotto, ma non ti spaventare, non c’è da aver paura sai? Io li tengo che tengo il tuo sguardo così quando proprio non ci capisco più niente e niente capisce più me,  io ti tiro fuori e ti metto nelle mani e poi apro bene i palmi e faccio un rituale: unisco i piedi come la bambina di Oz ma non vado da nessuna parte, irrigidisco le gambe come il busto di un lampione intermittente, apro le braccia stanche, ma bene bene, ma tengo le mani a conca non vorrei mai che i tuoi occhi cascassero da qualche parte e io poi magari li schiacciassi anche, sbadata come sono. Poi faccio qualche giravolta, un poco lenta all’inizio, poi da far venire una nausea fortissima. In pratica giro fino a che mi sento la dinamo di una bici e allora in qualche modo mi brucia la pancia e indovina? Dai indovina! Non indovini. Sono i tuoi occhi che brillano piano piano, come le lampadine a risparmio energetico. Che poi sono quelle che illuminano di più la notte e che si tengono sempre in casa. O nelle tasche. Quando fuori dentro o intorno è buio pesto pesto. C’è da aspettare solo che brillino più forte. E passami la scala che il lampadario è in alto, ma tienimi forte, che ho paura di cadere.

giovedì 3 gennaio 2013

posta prioritaria


quindi ho preso tutte le tue lettere e ho cominciato a tagliare, lettera per lettera. alla fine avevo te dappertutto sul letto, sulla sedia, su i mobili, tra i libri. ma non era mica sufficiente. allora ho preso la copia delle tue lettere e sono uscita la mattina presto, tutti ancora dormivano, e ti ho lasciato cadere sull’asfalto mentre attraversavo la strada, nel parcheggio, ti ho infilato nei tergicristalli degli altri, sparso sui ciuffi d’erba gelati dalla notte. Tornando a casa mi sono fermata davanti alla cassetta della posta, avevo ancora un pochino di te e ti ho infilato in tutte le destinazioni che tanto lo so che poi quelli della posta li mescolano a quella della città, ma va bene così, in questo modo, arrivi da te e poi torni anche indietro da me e poi io ti prendo dalla mia casella e poi ti porto a casa. ma tutto intero però.

martedì 1 gennaio 2013

che poi, tutto scorre

Goccia dopo goccia
cadiamo la memoria
ricordo dopo ricordo
cadiamo la pioggia della vita
la lasciamo sull'asfalto caldo per lasciare traccia
non riusciamo a perdere tutto insieme, sarebbe come un fiume
troppo forte da contenere
e allora centelliniamo la perdita
come un rubinetto difettoso
incapaci di sanarlo
misuriamo il passato
e piano lo lasciamo andare
mai del tutto
possessivi del nostro stesso pianto
poi capiamo che tutto scivola
tutta la vita scorre nel sangue
e niente può essere arrestato
e allora le lasciamo cadere
quelle lacrime salate
quella vita che finisce nello scarico
ripuliamo un po' dal calcare delle cose che hanno fatto davvero male
delle incrostazione di pensieri superati
di sentimenti consumati

Chiudi.

Gira bene la manopola
fai un giro doppio

Chiudi.

Apri.

Lascia andare.
Scivolerà ogni dolore.

Chiudi.

Apri ancora. Non smettere mai di muoverti.

Ogni volta sarà un riciclo
e sarai più pulito.

Chiudi.

Apri.

Lasciati scorrere. Lasciati piangere.

Chiudi.

Apriti: lasciati vivere, nuovo.